La cultura dell’inclusione continua a trasformare l’uomo vitruviano (e le organizzazioni)

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” diceva Tomasi Di Lampedusa ne “Il Gattopardo”. Il significato di questa frase fa proprio riferimento al concetto di cambiamento continuo e di evoluzione, che bene si può applicare alla società odierna e alla cultura dell’inclusione.

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La cultura dell’inclusione continua a trasformare l’uomo vitruviano (e le organizzazioni)

La storia, infatti, ci insegna che l’inclusione che conosciamo oggi è un diretto riflesso dei valori e delle sfide che hanno caratterizzato la società attraverso i secoli, ed è un concetto che si è evoluto nel tempo, rispecchiando i cambiamenti che sono avvenuti nella società.

Senza andare troppo in là nel passato, basti pensare a programmi televisivi o a battute che qualche anno fa passavano inosservate e oggi invece vengono criticate: non si tratta di essere diventati “più rigidi”, ma di un processo di cambiamento della forma mentis delle persone e della società.

Back to the past: saliamo su una macchina del tempo immaginaria

Facciamo un salto nel passato, basandoci su quello che è successo in Italia negli scorsi decenni. Quali sono le conquiste che nel corso del tempo hanno portato a una maggiore inclusività? Ecco qualche esempio che simboleggia i passi in avanti che sono stati fatti nel corso del tempo e il cambiamento di paradigma che la società e le organizzazioni hanno dovuto affrontare.

Cos’hanno in comune tutte queste conquiste? Il medesimo bisogno: includere maggiormente una categoria e avere maggiore parità e uguaglianza tra le persone e nella società.

Attenzione al Diversity washing

E oggi? In che posizioni si trovano le organizzazioni? Sicuramente non possono più ignorare la necessità di programmi di D&I, ma devono fare attenzione a non cadere nella trappola del “Diversity washing”: dichiarazioni poco approfondite, iniziative di facciata, comunicazione sull’argomento sporadica e soltanto in occasione di giornate internazionali (es. mese del Pride, giornata mondiale per le persone con disabilità, giornata internazionale contro la violenza sulle donne) rischiano di essere pericolose e di non affrontare realmente il problema.

Quello che, da subito e con cognizione di causa, le organizzazioni dovrebbero fare è implementare percorsi di Diversity & Inclusion. Le modalità sono molteplici, ma per non andare a tentativi, la metodologia migliore sarebbe quella di partire da un’analisi della “propensione all’inclusività” dei propri lavoratori, per poi introdurre programmi formativi ad hoc, creati per rispondere alle specifiche esigenze, e policy organizzative che puntano alla creazione di una cultura veramente inclusiva.

L’uomo vitruviano di Da Vinci non esiste più

Per “fare cultura” e creare una società e delle organizzazioni più inclusive, non bisogna soltanto lavorare sulle conoscenze: bisogna fare breccia nei comportamenti, nel non detto, nei pattern comportamentali e nei pregiudizi anche non espliciti che le persone hanno. Per questo motivo, il percorso verso una sempre maggiore inclusione è lungo, complesso e delicato.

Immaginiamo un obiettivo ancora lontano; pensiamo a “un uomo vitruviano” aggiornato alla realtà attuale: se non ci riuscite, se non riuscite a dargli caratteristiche specifiche, avete colto esattamente il punto. Non esiste più l’immagine di Da Vinci, perché sono richieste una capacità di analisi del mondo e una sensibilità in perenne evoluzione.

Per concludere, l'attenzione crescente e gli strumenti innovativi devono guidare le aziende attraverso un percorso di trasformazione culturale, perché è il primo passo per creare una società migliore.

Per questo diventa un vero e proprio imperativo: l'inclusività è non solo un obiettivo da raggiungere ma un valore che permea ogni aspetto della vita e del lavoro.