Perché trattare la D&I come un business case “qualunque” da ROI può essere controproducente.

Occuparsi di D&I è diventato ormai un imperativo per essere più produttivi, strategici e per aumentare la propria reputazione, ma siamo sicuri che questa sia l’impostazione (e la narrazione) di cui le organizzazioni hanno realmente bisogno?

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Perché trattare la D&I come un business case “qualunque” da ROI può essere controproducente.

I Big 3 della consulenza - McKinsey & Company, Bain & Company e The Boston Consulting - nel corso degli ultimi anni hanno evidenziato come occuparsi di D&I per le organizzazioni sia diventato ormai un imperativo per essere più produttivi, per avere diversificazione di pensiero e migliori strategie aziendali, per aumentare la propria reputazione agli occhi esterni e agli occhi dei propri dipendenti.

Nella narrazione predominante, quindi, le organizzazioni dovrebbero interessarsi a implementare progetti di D&I perché conveniente e vantaggioso.

Siamo sicuri però che questa sia la narrazione corretta di cui le organizzazioni hanno realmente bisogno?

Non è il classico punto di vista dell’uomo moderno che può trarre profitto e beneficio, senza curarsi di comprendere ed empatizzare?

È ovviamente innegabile che le organizzazioni, per intraprendere un progetto di Diversity & Inclusion all’interno delle proprie mura, devono poter avere il budget necessario per farlo e delle ragioni concrete che giustifichino questo investimento.
Quello che emerge però, è che molte volte il ritorno economico, di performance e di reputazione venga messo in primo piano rispetto a quello che dovrebbe essere l’obiettivo primario: essere realmente inclusivi.

Perché trasformare la D&I in un vantaggio strategico può essere controproducente

Proprio a questo scopo, l’HBR (Harvard Business Review) ha condotto due interessanti studi.
Dal primo, in cui sono stati raccolti testi di siti web, rapporti sulla diversità e blog delle aziende Fortune 500 e sono stati classificati i dati raccolti, emerge che:  

Collegando questi risultati al secondo studio, però, si può comprendere perché questa tipologia di giustificazioni alla lunga può essere controproducente e quasi dannosa per le organizzazioni che vogliono veramente essere inclusive.
Nel secondo studio, infatti, emerge che i dipendenti appartenenti alle minoranze che leggono nella presentazione della propria organizzazione una giustificazione di quel tipo:

L’impatto che si rischia di avere proprio sulle persone che le organizzazioni puntano ad includere (o a comunicare di includere per scopi economici), e di conseguenza anche sulla reputazione interna, è prettamente negativo.

Per usare un parallelismo con la causa ambientale, senza andare a scomodare il discusso green washing, questa strategia comunicativa è la stessa di chi afferma di tenere all’ambiente e di fare la raccolta differenziata, ma che si premura anche di dare come giustificazione per questa buona pratica il vantaggio di evitare le multe previste.

La più efficace giustificazione è non avere una giustificazione

Perché dovremmo giustificarci per un valore che sentiamo nostro? Quello fa parte del nostro essere, del nostro mindset e della nostra cultura. Definisce ciò che siamo e come ci comporteremo.
Proprio per questo la più efficace giustificazione è non averne una.
Di conseguenza, prima di mettere in atto percorsi sulla D&I, le organizzazioni dovrebbero premurarsi di porre l’attenzione su:

Laura Cavallaro, ingegnere e Partner di W Advisory, approfondisce lo scenario, dando alcuni consigli su iniziative trasversali che potrebbero far la differenza su un percorso di questo tipo: “Per essere realmente inclusivi, sono due gli aspetti a cui prestare attenzione: la comunicazione interna in primis, perché tematiche così delicate necessitano di una gestione impeccabile della comunicazione interna.
In secundis, ma non per importanza, l’allineamento della leadership: se i leader non sono allineati e non sono totalmente a bordo, è difficile che i valori riescano ad affondare le proprie radici nella cultura aziendale. Dalle azioni di un leader, infatti, dipendono i pensieri e i comportamenti delle sue persone.”

Per questo alle organizzazioni che veramente vogliono portare alta la bandiera della D&I, ma che non sanno come farlo e allo stesso tempo non vogliono fare passi falsi, può essere utile un percorso ben strutturato, di lungo termine, dove si va ad agire contemporaneamente sulla cultura (a più livelli, a partire dal Top Management) e sulla composizione sociale dell’azienda.

Marco Planzi, ingegnere e Partner di W Advisory, dà il suo punto di vista su quella che dovrebbe essere la prima esigenza delle organizzazioni: “Il vero punto di partenza per le organizzazioni è comprendere il proprio livello di inclusività e diversità. Non si può partire con dei percorsi sulla D&I, senza aver avuto uno specchio, una fotografia puntuale della propria propensione all’inclusione.  L’ideale sarebbe partire da uno strumento di valutazione gamificato e, allo stesso tempo, qualitativamente e quantitativamente affidabile, per comprendere quanto il valore della diversità e dell’inclusione fa realmente parte della propria organizzazione.”

In ogni percorso di cambiamento i valori rappresentano un aspetto chiave per guidare verso potenziali miglioramenti: per operare un vero cambiamento guidato dai principi della D&I, le organizzazioni devono in primis condividerne i valori, piuttosto che cercare una giustificazione economica sul perché convenga essere inclusivi.

Soltanto così potranno essere credibili e, perché no, migliori.